Era il 1926 e Allen Ginsberg diede un Urlo dal grembo della madre. Le cose stavano cambiando in America e il poeta arrivò per raccontare la coscienza del suo popolo attraverso quella che egli definì “una nuova visione” riprendendo il collega Rimbaud. Allen era ossessionato dalla società contemporanea e soprattutto dal New York Times, che leggeva ogni settimana (come racconta nella sua poesia America) e a cui, da adolescente, iniziò a scrivere lettere su tematiche civili e politiche. È sicuramente quest’ interesse che ha fatto di Ginsberg un grande letterato. Aveva capito tutto. Aveva compreso l’ansia e le forzature di un’ America che voleva primeggiare in tutto. Si era fatto interprete di un sentimento di angoscia che era condiviso tra i suoi connazionali. Il vero genio di tre generazioni. Perché dopo aver letto Whitman e Blake, con la sua grossa zucca scendeva in strada e scriveva esattamente ciò che vedeva.
Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa,
hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte,
che in miseria e stracci e occhi infossati stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua fredda fluttuando sulle cime delle città contemplando jazz.
Da “Urlo & Kaddish” (Il Saggiatore 1997)
La prima volta che lessi Ginsberg, come un po’ tutti credo, rimasi accecato dal suo stile, dalla sua scrittura. “Il ritmo dei suoi versi va perfettamente a tempo coi pensieri”, pensai leggendo Kaddish e Reality Sandwiches. È ovvio che per supportare idee così vive, spudorate e spontanee c’è bisogno di versi metricamente spericolati, geniali e sregolati. Quello che noi oggi intendiamo per Beat Generation, un movimento nato quasi inconsapevolmente e corroborato attraverso le amicizie con Kerouac, Burroughs e Corso, è un processo che ha allargato le coscienze individuali cercando di arrivare a sviluppare una consapevolezza di sé attraverso la felicità, l’amore e la solidarietà. Tre temi che il poeta tratta in modo ritenuto assolutamente scandaloso dalla critica, per le varie oscenità descritte in “Howl” (Urlo), un poema del 1956, pubblicato dal maestro Ferlinghetti, in cui Ginsberg racconta delle vicende e degli incontri con amici e contemporanei, il tutto sotto un linguaggio e uno stile che rappresenta esaurientemente la Rivoluzione ginsbergiana: il tumbling hallucinatory (acrobazia allucinatoria).
Sotto questo punto di vista, quel verso libero e lungo a cui Allen faceva affidamento, fungeva non solo da padella antiaderente, perché pensieri così veloci rischiano di rimanere attaccati alla ghisa, ma evitava così che le sue pietanze dal sapore piccante e delicate allo stesso tempo potessero prendere fuoco. Ginsberg non è stato l’unico ad inneggiare a valori come l’amore, né l’unico a sognare un mondo senza guerre, senza schiavitù, senza differenze sessuali, ma probabilmente è stato colui che più di tutti, attraverso la sua poesia, intima e confessionale, ha aperto le coscienze dei giovani che a quei sogni si sono aggrappati, sentendosi meno soli, meno utopici, udendolo gridare nelle piazze, nelle gallerie di New York, nel teatro San Carlo di Napoli. Perché poi la poesia quando racconta invade, annienta ogni barriera mentale e nazionale. Unisce le coscienze e si proclama immortale. Ginsberg ha cantato per tutti noi e ancora parla il giorno in cui avrebbe compiuto 89 anni. Anzi no, Allen non parla, grida, perché i suoi messaggi possano essere recepiti con chiarezza. Ed è assolutamente chiaro che in ognuno di noi, oggi più che mai, dovrebbe esplodere un Urlo.
Continuo a scrivere poesia perché è una forma di meditazione. Scopro il mio pensiero latente e lo muovo verso l’esterno. E’ anche una certa forma di solitudine, e io voglio comunicarla, che gli altri possano toccarla, toccarmi, e che io possa toccare la gente.
Allen Ginsberg
Articolo a cura di Antonio Di Vilio
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